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La prescrizione è troppo breve? Va disapplicata!

Non è raro che le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea facciano discutere per le ricadute che i principi di diritto in esse affermati hanno nel diritto degli Stati membri, ma, vi è da crederlo, la motivazione della Sentenza della Grande Sezione 8 settembre 2015 nella Causa C-105/14 molto probabilmente aprirà un dibattito molto acceso per via delle conseguenze che potrà spiegare nell’ambito del diritto penale sostanziale.

La sentenza, già ribattezzata “Sentenza Taricco” dal nome di uno dei coimputati nel giudizio di rinvio, interviene in materia di frodi IVA ed afferma il principio – di apparente buon senso – secondo cui se uno Stato membro adotta un sistema sanzionatorio inefficace, tale da rendere sostanzialmente impunita la frode del tributo comunitario per eccellenza, il Giudice Nazionale, al fine di garantire l’effettività della sanzione, può disapplicare le norme di diritto interno che contrastino con l’obiettivo di garantire la riscossione e sanzionare la frode.

Il corollario di tale principio, tuttavia, è che il Giudice nazionale dovrebbe disapplicare, nientemeno, che le norme del codice penale in tema di prescrizione e proseguire l’azione penale anche quando il reato è a tutti gli effetti prescritto, ignorando il disposto dell’art. 161 c.p.!

Per meglio comprendere i termini della questione e valutarne le effettive ricadute in diritto interno analizzeremo lo sviluppo del processo che ha dato origine alla sentenza.

IL CASO

Il procedimento nanti alla Corte di Giustizia nasce da una  domanda di pronuncia pregiudiziale sull’interpretazione degli articoli 101, 107  e 119 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (d’ora innanzi TFUE) nonché dell’articolo 158 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, sollevata nell’ambito di un procedimento penale pendente nanti al Tribunale di Cuneo.

In detto procedimento viene contesto agli imputati di aver costituito e organizzato, nel corso degli esercizi fiscali dal 2005 al 2009, un’associazione per delinquere allo scopo di commettere vari delitti in materia di IVA, mediante il sistema ben noto delle «frodi carosello»: gli imputati, mediante la loro società avrebbero acquisito all’estero beni (nella specie bottiglie di champagne) evadendo IVA per milioni di euro ed avrebbero rivenduto tali beni sul mercato nazionale, determinando, tra l’altro, una concorrenza sleale nei confronti delle aziende del settore, per via dell’offerta di prodotti a prezzi molto più competitivi, in ragione del mancato pagamento del tributo.

Il procedimento, al momento della remissione alla Corte, si trovava nella fase dell’udienza preliminare ed il GUP avrebbe dovuto pronunciare sentenza di non luogo a procedere nei confronti di uno dei coimputati per intervenuta prescrizione, disponendo il rinvio a giudizio degli altri, con la prospettiva, in ogni caso, della maturazione per tutti del termine di prescrizione entro il febbraio 2018.

Essendo stati contestati infatti gli  articoli 2 e 8 del d.lgs. n. 74/2000, che prevedono la reclusione fino a sei anni ed il delitto di associazione per delinquere, previsto dall’articolo 416 del codice penale, punito con la reclusione fino a sette anni per i promotori dell’associazione e fino a cinque anni per i semplici partecipanti, la prescrizione è fissata in sette anni per i promotori dell’associazione e in sei per i partecipanti: tale termine, ritualmente interrotto prima della maturazione dei termini di fase, in ogni caso non sopporta di essere “prorogato” di oltre 1/4 a mente dell’art. 161 c.p., con la conseguenza che, per il reato più grave, la prescrizione matura in otto anni e nove mesi dalla consumazione del reato, mentre per l’ipotesi più “lieve” (reati tributari + mera partecipazione all’associazione per delinquere) matura inesorabilmente in sette anni e sei mesi.

La conseguenza – osserva il GUP che rimette la questione alla Corte – è che gli imputati, cui si contesta di aver commesso la frode, potranno verosimilmente beneficiare di una sostanziale impunità  dovuta alla maturazione del termine di prescrizione: ad avviso del GUP, tuttavia, tale conseguenza – del tutto conforme al diritto interno – è tale da determinare una violazione della normativa comunitaria in materia di IVA.

Il Tribunale di Cuneo infatti osserva che i procedimenti penali relativi alle frodi carosello come quella contestata agli imputati comportano, per la natura stessa della fattispecie, indagini assai complesse e prolungate nel tempo,  che fra l’altro, nel sistema di controllo a posteriori cui è improntato il nostro sistema tributario, vengono abitualmente scoperte a distanza di parecchi anni dalla consumazione del reato: tali fattori, secondo il Giudice rimettente, sommati alla durata media dei procedimenti penali nei tre gradi di giudizio danno luogo ad una situazione di fatto in cui l’impunità  costituirebbe in Italia non un’evenienza rara, ma la norma; con l’aggravante che, nella stragrande maggioranza dei casi, l’amministrazione tributaria non riuscirebbe neppure a conseguire il pagamento del tributo evaso con le condotte oggetto di reato.

Per tale ragione il GUP ritiene che le disposizioni italiane di cui trattasi autorizzino indirettamente una concorrenza sleale da parte di taluni operatori economici stabiliti in Italia rispetto ad imprese con sede in altri Stati membri, con conseguente violazione dell’articolo 101 TFUE. e addirittura dell’articolo 107 TFUE.

Non solo: determinando una esenzione di fatto dal pagamento dell’IVA costituirebbero nientemeno che un caso di “esenzione” non previsto all’articolo 158, paragrafo 2, della direttiva 2006/112.

In ultimo ritiene il GUP che l’impunità de facto di cui godrebbero gli evasori fiscali violerebbe il principio direttivo, previsto all’articolo 119 TFUE, secondo cui gli Stati membri devono vigilare sulla “salute” delle loro finanze pubbliche.

A fronte di questo quadro, la soluzione prospettata dal Tribunale di Cuneo per garantire l’applicazione effettiva in Italia del diritto dell’Unione in materia di frodi IVA sia quella di disapplicare le norme italiane in materia di prescrizione!

Sulla base di questi presupposti il Tribunale di Cuneo sospende il procedimento e sottopone alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) [S]e, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano – nella parte in cui contempla un prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto a seguito di interruzione, e quindi, consentendo la prescrizione dei reati nonostante il tempestivo esercizio dell’azione penale, con conseguente impunità – sia stata infranta la norma a tutela della concorrenza contenuta nell’art. 101 del TFUE;

2) Se, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano – nella parte in cui contempla un prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto a seguito di interruzione, e quindi, privando di conseguenze penali i reati commessi da operatori economici senza scrupoli – lo Stato italiano abbia introdotto una forma di aiuto vietata dall’art. 107 del TFUE;

3) Se, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano – nella parte in cui contempla un prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto a seguito di interruzione, e quindi, creando un’ipotesi di impunità per coloro che strumentalizzano la direttiva comunitaria – lo Stato italiano abbia indebitamente aggiunto un’esenzione ulteriore rispetto a quelle tassativamente contemplate dall’articolo 158 della direttiva 2006/112/CE;

4) Se, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano – nella parte in cui contempla un prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto a seguito di interruzione, e quindi, rinunciando a punire condotte che privano lo Stato delle risorse necessarie anche a far fronte agli obblighi verso l’Unione europea, sia stato violato il principio di finanze sane fissato dall’art. 119 del TFUE».

LE ARGOMENTAZIONI DELLA CORTE

La Corte parte dall’analisi della normativa di riferimento in materia di IVA, richiamando in particolare

  • l’articolo 325 TFUE a mente del quale «1. L’Unione e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione stessa mediante misure adottate a norma del presente articolo, che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell’Unione. 2. Gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari. (…)».
  • il preambolo della Convenzione elaborata in base all’articolo K.3 del Trattato sull’Unione europea relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, firmata a Lussemburgo il 26 luglio 1995 (GU C 316, pag. 48; in prosieguo: la «Convenzione PIF»), a mente del quale Stati membri dell’Unione europea affermano «che la tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee esige che ogni condotta fraudolenta che leda tali interessi debba dar luogo ad azioni penali» e «della necessità di rendere tali condotte passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive, fatta salva l’applicazione di altre sanzioni in taluni casi opportuni, e di prevedere, almeno nei casi gravi, delle pene privative della libertà».
  • l’articolo 1, paragrafo 1, della Convenzione PIF così dispone: «Ai fini della presente convenzione costituisce frode che lede gli interessi finanziari delle Comunità europee: (…) b) in materia di entrate, qualsiasi azione od omissione intenzionale relativa: – all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti cui consegua la diminuzione illegittima di risorse del bilancio generale delle Comunità europee o dei bilanci gestiti dalle Comunità europee o per conto di esse; (…)».
  • l’articolo 2, paragrafo 1, di tale Convenzione prevede quanto segue: «Ogni Stato membro prende le misure necessarie affinché le condotte di cui all’articolo 1 nonché la complicità, l’istigazione o il tentativo relativi alle condotte descritte all’articolo 1, paragrafo 1, siano passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno, nei casi di frode grave, pene privative della libertà che possono comportare l’estradizione, rimanendo inteso che dev’essere considerata frode grave qualsiasi frode riguardante un importo minimo da determinare in ciascuno Stato membro. Tale importo minimo non può essere superiore a [EUR] 50 000 (…)».
  • l’articolo 131 della direttiva 2006/112 il quale dispone che: «Le esenzioni previste ai capi da 2 a 9 [del titolo IX della direttiva 2006/112] si applicano, salvo le altre disposizioni comunitarie e alle condizioni che gli Stati membri stabiliscono per assicurare la corretta e semplice applicazione delle medesime esenzioni e per prevenire ogni possibile evasione, elusione e abuso».
  • l’articolo 138, paragrafo 1, della direttiva 2006/112 che prevede: «Gli Stati membri esentano le cessioni di beni spediti o trasportati, fuori del loro rispettivo territorio ma nella Comunità, dal venditore, dall’acquirente o per loro conto, effettuate nei confronti di un altro soggetto passivo, o di un ente non soggetto passivo, che agisce in quanto tale in uno Stato membro diverso dallo Stato membro di partenza della spedizione o del trasporto dei beni».
  • l’articolo 158  direttiva 2006/112 che  dispone: «1. (…) gli Stati membri possono prevedere un regime di deposito diverso da quello doganale nei casi seguenti: a) per i beni destinati a punti di vendita in esenzione da imposte (…); (…) 2. Quando si avvalgono della facoltà di esenzione di cui al paragrafo 1, lettera a), gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicurare l’applicazione corretta e semplice di detta esenzione e per prevenire qualsiasi evasione, elusione e abuso. (…)».
  • l’articolo 2, paragrafo 1, della decisione 2007/436/CE, Euratom del Consiglio, del 7 giugno 2007, relativa al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee (GU L 163, pag. 17), che prevede: «Costituiscono risorse proprie iscritte nel bilancio generale dell’Unione europea le entrate provenienti: (…) b) (…) dall’applicazione di un’aliquota uniforme, valida per tutti gli Stati membri, agli imponibili IVA armonizzati, determinati secondo regole comunitarie. (…)».

Una volta chiarito il quadro comunitario, la Corte analizza brevemente le norme del diritto interno italiano in materia di prescrizione vale a dire gli art. 157, 158, 159, 160 e 161 c.p. , nonché le norme di diritto sostanziale rilevanti nel caso di specie (art. 416 c.p. e art. 2 e 8 D.Lgs. 74/2000) e, superate le censure di irricevibilità, comincia la disamina delle questioni pregiudiziali, a cominciare dalla terza relativa all’introduzione di una fittizia “esenzione” dal pagamento dell’IVA nell’ordinamento italiano, per via del sistema della prescrizione (come riformato dalla “ex-Cirielli”) vigente all’epoca dei fatti.

La Corte preliminarmente rileva che benché il giudice rimettente faccia riferimento all’articolo 158 della direttiva 2006/112,  dalla motivazione dell’ordinanza di rinvio si evince che il quesito posto “mira a determinare, in sostanza, se una normativa nazionale come quella stabilita dalle disposizioni di cui trattasi non si risolva in un ostacolo all’efficace lotta contro la frode in materia di IVA nello Stato membro interessato, in modo incompatibile con la direttiva 2006/112 nonché, più in generale, con il diritto dell’Unione”

E la risposta è affermativa!

Richiamandosi ripetutamente alle osservazioni già svolte nella sentenza Åkerberg Fransson, C‑617/10, EU:C:2013:105 (soprattutto al punto 25 e punto 26 e giurisprudenza ivi citata) la Corte afferma che malgrado  gli Stati membri dispongono di una libertà di scelta delle sanzioni applicabili (amministrative o penali)  al fine di assicurare la riscossione di tutte le entrate provenienti dall’IVA e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione conformemente alle disposizioni della direttiva 2006/112 e all’articolo 325 TFUE, le sanzioni penali possono tuttavia essere indispensabili per combattere in modo effettivo e dissuasivo determinate ipotesi di gravi frodi in materia di IVA.

In tal senso gli Stati membri devono assicurarsi che casi siffatti di frode grave siano passibili di sanzioni penali dotate, in particolare, di carattere effettivo e dissuasivo, senza tuttavia determinare discriminazioni rispetto alle misure sanzionatorie impiegate per combattere i casi di frode di pari gravità che ledono i loro interessi finanziari interni.

Osserva peraltro che, se è vero che l’Italia adotta un sistema di repressione penale della frode adeguatamente dissuasivo, “dall’ordinanza di rinvio emerge che le disposizioni nazionali di cui trattasi, introducendo una regola in base alla quale, in caso di interruzione della prescrizione per una delle cause menzionate all’articolo 160 del codice penale, il termine di prescrizione non può essere in alcun caso prolungato di oltre un quarto della sua durata iniziale, hanno per conseguenza, date la complessità e la lunghezza dei procedimenti penali che conducono all’adozione di una sentenza definitiva, di neutralizzare l’effetto temporale di una causa di interruzione della prescrizione.”

Pertanto, afferma la Corte: “Qualora il giudice nazionale dovesse concludere che dall’applicazione delle disposizioni nazionali in materia di interruzione della prescrizione consegue, in un numero considerevole di casi, l’impunità penale a fronte di fatti costitutivi di una frode grave, perché tali fatti risulteranno generalmente prescritti prima che la sanzione penale prevista dalla legge possa essere inflitta con decisione giudiziaria definitiva, si dovrebbe constatare che le misure previste dal diritto nazionale per combattere contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione non possono essere considerate effettive e dissuasive, il che sarebbe in contrasto con l’articolo 325, paragrafo 1, TFUE, con l’articolo 2, paragrafo 1, della Convenzione PIF nonché con la direttiva 2006/112, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE.

E conclude: “Qualora il giudice nazionale giungesse alla conclusione che le disposizioni nazionali di cui trattasi non soddisfano gli obblighi del diritto dell’Unione relativi al carattere effettivo e dissuasivo delle misure di lotta contro le frodi all’IVA, detto giudice sarebbe tenuto a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione disapplicando, all’occorrenza, tali disposizioni e neutralizzando quindi la conseguenza rilevata al punto 46 della presente sentenza, senza che debba chiedere o attendere la previa rimozione di dette disposizioni in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (v., in tal senso, sentenze Berlusconi e a., C‑387/02, C‑391/02 e C‑403/02, EU:C:2005:270, punto 72 e giurisprudenza ivi citata, nonché Kücükdeveci, C‑555/07, EU:C:2010:21, punto 51 e giurisprudenza ivi citata).

Esaurito l’argomento, la Corte riunisce gli altri quesiti per respingerli singolarmente prima di pronunciare le seguenti conclusioni:

“1) Una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato come quella stabilita dal combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, del codice penale, come modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, e dell’articolo 161 di tale codice – normativa che prevedeva, all’epoca dei fatti di cui al procedimento principale, che l’atto interruttivo verificatosi nell’ambito di procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia di imposta sul valore aggiunto comportasse il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale – è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE nell’ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, circostanze che spetta al giudice nazionale verificare. Il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE.

2) Un regime della prescrizione applicabile a reati commessi in materia di imposta sul valore aggiunto, come quello previsto dal combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, del codice penale, come modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, e dell’articolo 161 di tale codice, non può essere valutato alla luce degli articoli 101 TFUE, 107 TFUE e 119 TFUE.”

LE CONSEGUENZE

La portata della Sentenza nell’ambito dei diritti nazionali degli Stati Membri dell’U.E. e dell’Italia in particolare pare particolarmente significativa, nella misura in cui entra prepotentemente in un settore, quello penale, di cui gli Stati tendono a conservare gelosamente il proprio potere normativo, sotto il sigillo della rispettiva grundnorm costituzionale.

Tre, a mio avviso, le principali criticità che, in attesa di analisi di ben più illustri cultori di diritto penale, diritto costituzionale e diritto comunitario, mi permetto di individuare e che attengono, rispettivamente:

a) alla rimessione al Giudice del potere di disapplicare di una norma di diritto penale sostanziale;

b) alla creazione di un notevole vulnus nel principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione

c) all’affermazione della sussistenza di un “obbligo di risultato” per gli stati membri in materia di repressione delle frodi IVA, in nome del quale è consentita sostanzialmente la disapplicazione di qualsiasi norma.

Vediamo nel dettaglio i suddetti profili.

Il Giudice ed il potere di disapplicare il Codice Penale

Seppure da convinto allievo della scuola filosofico-giuridica genovese ho ben chiaro che il Giudice non è soggetto soltanto alla legge ed in molti casi svolge una funzione creatrice del diritto utile e condivisibile, consentire che, in materia di diritto penale sostanziale gli sia concesso di applicare o non applicare discrezionalmente un istituto quale quello della prescrizione mi pare, francamente, aberrante.

Aberrante non solo e non tanto perché contrastante con i principi stessi che presiedono al sistema penale, ma perché tale potere è rimesso ad una valutazione del tutto empirica quale quella di verificare se la normativa sulla prescrizione consenta “in un numero considerevole di casi” di ottenere l’impunità…

Doppiamente aberrante se si riflette sul fatto che nel sistema processual-penalistico italiano l’impunità “in un numero considerevole di casi” non è affatto prerogativa delle frodi IVA, ma è il fisiologico frutto di una sostanziale inefficienza di sistema (quali che ne siano le cause).

Certo si può sostenere che il sistema della prescrizione post ex-Cirielli si tale da generare un elevatissimo numero di estinzioni di procedimenti per decorso dei termini, ad un’analisi attenta e scevra da considerazioni di natura politica, non si può non convenire sul fatto che le “colpe” non siano della legge in sé, ma siano da ravvisarsi in una situazione di lentezza e inefficienza sistemica che trova origine in una pluralità di fattori sia di natura normativa, sia di natura processuale, sia di natura organizzativa e, in alcuni casi, addirittura di natura pratica (carenza di personale, carenza di mezzi, carenza di strutture ecc.).

Dire dunque che responsabile di una inadeguata punizione della frode IVA sia l’art. 161 c.p. pare, a chi frequenti un poco le aule giudiziarie, francamente un po’ eccessivo: la norma in questione semmai mette a nudo un nervo scoperto della Giustizia italiana, ossia quello della lentezza dei processi, ne diventa una cartina al tornasole, ma di certo non è, da sola, “LA” responsabile dell’impunità.

Né la soluzione al problema dell’impunità delle frodi IVA  sembra essere quella di “eliminare” nel singolo caso la prescrizione – ledendo una schiera di principi sacrosanti quali la certezza del diritto, il principio di legalità e  il principio di eguaglianza davanti alla legge solo per citare i due più “a portata di mano”…): semmai occorrerà ridare efficienza al sistema, intervenendo  sui tempi del processo, potenziando le risorse informatiche e telematiche, o anche riformando (ma in modo organico e uguale per tutti) la prescrizione, stabilendo, ad esempio, che la stessa non decorra durante le fasi processuali o che cessi di decorrere con la sentenza di primo grado.

Ogni alternativa mi pare, allo stato, migliore che lasciare all’empirica valutazione del singolo Giudice il fatto di applicare o non applicare le regole sulla prescrizione, sulla base di un parametro, quello del “numero considerevole di casi” che è di per sé del tutto opinabile (quando il numero diventa “considerevole”? si deve valutare il criterio su base percentuale o in termini di numeri assoluti? e rispetto a quale base di calcolo: al numero dei procedimenti prescritti rispetto ai soli casi di frode o rispetto al tutti i procedimenti penali pendenti? o ancora sulla base di un criterio differenziale che consenta di stabilire se c’è in materia di frode IVA un numero di prescrizioni più elevato rispetto ai reati puniti con pena analoga?).

La disparità di trattamento fra imputati di reati analoghi o puniti con la medesima pena.

Sembra evidente che consentire al Giudice di non applicare la norma sulla prescrizione ai reati di frode IVA determina immediatamente una disparità di trattamento nei confronti di quegli imputati per reati analoghi aventi rilevanza esclusivamente interna (relativi ad esempio ad altre imposte), o per reati di diversa natura,  ma puniti con lo stesso range di pena: agli uni verrebbe negata la sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato che agli altri sarebbe invece riconosciuta a parità di tempo trascorso dalla consumazione del reato.

E’ questo un tema su cui la Corte non ha avuto modo di pronunciarsi nella commentata sentenza, essendosi limitata a valutare le ricadute della disapplicazione in relazione ai principi di legalità e di proporzionalità dei reati e delle pene (fornendo una soluzione piuttosto discutibile, dovuta ad una sottovalutazione della norma di cui all’art. 161 c.p. nel contesto interno).

Da un lato infatti, la Corte (punto 53) percepisce il problema di una potenziale lesione di diritti fondamentali degli imputati ed osserva “Occorre aggiungere che se il giudice nazionale dovesse decidere di disapplicare le disposizioni nazionali di cui trattasi, egli dovrà allo stesso tempo assicurarsi che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati. Questi ultimi, infatti, potrebbero vedersi infliggere sanzioni alle quali, con ogni probabilità, sarebbero sfuggiti in caso di applicazione delle suddette disposizioni di diritto nazionale.

La questione era stata sollevata anche dalle difese che, argomentando sulla base dell’art. 49 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, avevano ritenuto che l’eventuale disapplicazione avrebbe leso  diritti fondamentali degli imputati quali il principi di legalità e di proporzionalità dei reati e delle pene, in base ai quali, in particolare, nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale.

La Corte sul punto – a mio avviso non interpretando correttamente il diritto interno italiano – afferma che tale violazione non sussisterebbe nel caso di specie perché  “la disapplicazione delle disposizioni nazionali di cui trattasi avrebbe soltanto per effetto di non abbreviare il termine di prescrizione generale nell’ambito di un procedimento penale pendente, di consentire un effettivo perseguimento dei fatti incriminati nonché di assicurare, all’occorrenza, la parità di trattamento tra le sanzioni volte a tutelare, rispettivamente, gli interessi finanziari dell’Unione e quelli della Repubblica italiana”.

L’aspetto garantista del diritto ad essere punito entro un ragionevole termine dalla commissione del fatto – ratio della norma di cui all’art. 161 – sembra insomma sconosciuto di Giudici del Lussemburgo… che addirittura argomentano citando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, (CEDU) firmata a Roma il 4 novembre 1950, che sancisce diritti corrispondenti a quelli garantiti dall’articolo 49 della Carta: “Secondo tale giurisprudenza, infatti, la proroga del termine di prescrizione e la sua immediata applicazione non comportano una lesione dei diritti garantiti dall’articolo 7 della suddetta Convenzione, dato che tale disposizione non può essere interpretata nel senso che osta a un allungamento dei termini di prescrizione quando i fatti addebitati non si siano ancora prescritti [v., in tal senso, Corte eur D.U., sentenze Coëme e a. c. Belgio, nn. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, § 149, CEDU 2000‑VII; Scoppola c. Italia (n. 2) del 17 settembre 2009, n. 10249/03, § 110 e giurisprudenza ivi citata, e OAO Neftyanaya Kompaniya Yukos c. Russia del 20 settembre 2011, n. 14902/04, §§ 563, 564 e 570 e giurisprudenza ivi citata]”.

Tutto conforme alla Carta e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo dunque?

Non ne sono affatto convinto.

In primo luogo perché non pare corretto ritenere che, nel diritto interno italiano la funzione dell’art. 161 c.p. sia quella di “accorciare” il termine di prescrizione! La norma di questione è infatti norma di chiusura di un sistema prescrizionale in cui si consente che, al verificarsi di determinati eventi, la prescrizione si interrompa e torni a decorrere da zero. E’ evidente che in sistema come questo – se si vuole dare un senso al principio stesso cui si ispira la prescrizione- occorre stabilire un tetto oltre il quale lo Stato rinuncia definitivamente alla propria pretesa punitiva.

L’articolo 161 c.p. allora non “accorcia” nulla, ma limita l’effetto moltiplicativo che una pluralità di interruzioni hanno sulla prescrizione: certo ci si può domandare se fissare questo tetto ad un aumento del quarto sia sufficiente, ma questa è questione che compete evidentemente al Legislatore e su cui in uno “Stato ben organizzato” il Giudice non dovrebbe avere margine di discrezionalità.

Non solo.

Le argomentazioni della Corte, tutte volte ad affermare la compatibilità fra la disapplicazione della norma penale italiana con l’art. 49 della Carta e con l’art. 7 della CEDU a mio avviso trascurano un principio non meno importante e non meno codificato.

Il principio che viene leso in modo più plateale, nel caso di specie, non pare tanto quello dell’art. 49 della Carta, quanto quello di uguaglianza e non discriminazione sancito:

a) dall’art. 1 del Protocollo XII alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, a mente del quale Il godimento di ogni diritto previsto dalla legge deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l‘origine nazionale o sociale, l‘appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione.”

b) dall’art. 20 della Carta a mente del quale:”Tutte le persone sono uguali davanti alla legge“,

c) dall’art. 3 della Costituzione della Repubblica Italiana: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali“.

Ammettere che l’art. 161 c.p. possa essere applicato o non applicato a seconda che il reato perseguito sia una frode in materia di IVA o meno, è qualcosa che già a livello teorico pare semplicemente abnorme perché introduce un criterio di discriminazione (il fatto di essersi resi responsabili di un reato in materia di IVA) fra soggetti che hanno un’analoga posizione di fronte alla legge, comminando agli uni e non agli altri un trattamento profondamente diverso in tema di prescrizione.

Con la conseguenza che, in un caso (frode IVA) il reato non si prescriverà mai e negli altri, parimenti gravi, si prescriverà al più tardi in sette anni e mezzo (otto anni e nove mesi, nel caso che ci occupa, per via del reato associativo).

A parità di offesa, dunque, conseguenze essenzialmente diverse e paradossali.

Si pensi al caso di una frode tributaria commessa con una pluralità di condotte in continuazione fra loro nessuna delle quali rilevi dal punto di vista dell’evasione di IVA o superi la soglia di punibilità per l’evasione IVA: in questa ipotesi si potrà tranquillamente applicare la norma di cui all’art. 161 c.p. e, decorsi i termini di prescrizione, gli imputati andranno prosciolti.

Laddove invece le stesse identiche fattispecie comportassero anche per un solo centesimo il superamento della soglia di punibilità IVA e la contestazione del reato, il Giudice potrebbe decidere quantomeno per quella singola contestazione di non tener conto dell’art. 161 c.p. e, paradossalmente, di procedere nel giudizio anche per decenni (!), atteso che ogni evento previsto dall’art. 160 c.p. (sentenza o decreto di condanna, ordinanza che applica le misure cautelari personali e quella di convalida del fermo o dell’arresto, l’interrogatorio reso davanti al pubblico ministero o al giudice, l’invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere l’interrogatorio, il provvedimento del giudice di fissazione dell’udienza in camera di consiglio per la decisione sulla richiesta di archiviazione, la richiesta di rinvio a giudizio, il decreto di fissazione della udienza preliminare, l’ordinanza che dispone il giudizio abbreviato, il decreto di fissazione della udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione della pena, la presentazione o la citazione per il giudizio direttissimo, il decreto che dispone il giudizio immediato, il decreto che dispone il giudizio e il decreto di citazione a giudizio ) determina interruzione e riconteggio ab initio della prescrizione…

Tutto ciò con l’ulteriore conseguenza che, in ipotesi, il termine di prescrizione della frode IVA potrebbe, in concreto, divenire addirittura più lungo di quello di reati molto più gravi, anche qui con grave compromissione del principio di non discriminazione (e in questo caso anche di proporzionalità).

L'”obbligo di risultato” in materia di repressione delle frodi IVA

Quanto detto sopra risulta già estremamente indicativo di come i profili di critica nei confronti della sentenza siano maggiori degli spunti di interesse che se ne traggono.

Vorrei porre tuttavia in evidenza un passaggio che mi pare particolarmente indicativo e che, ove fosse riaffermato nel tempo, potrebbe portare a conseguenze molto incisive sui diritti nazionali degli stati UE e, allo stato, quasi imprevedibili.

Riporto letteralmente i punti 50 e 51 della motivazione della sentenza:

“50. A tale riguardo, è necessario sottolineare che l’obbligo degli Stati membri di lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione con misure dissuasive ed effettive nonché il loro obbligo di adottare, per combattere la frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei loro interessi finanziari sono obblighi imposti, in particolare, dal diritto primario dell’Unione, ossia dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE.

51 Tali disposizioni del diritto primario dell’Unione pongono a carico degli Stati membri un obbligo di risultato preciso e non accompagnato da alcuna condizione quanto all’applicazione della regola in esse enunciata, ricordata al punto precedente.”

Secondo la Corte, dunque, le disposizioni del Diritto Comunitario in materia di repressione delle frodi IVA pongono a carico degli Stati membri un obbligo di risultato, difettando il quale – è il corollario della Corte – la forza cogente dei principi Comunitari deve essere affermata in deroga alle norme del diritto nazionale, anche mediante disapplicazione di quelle norme di diritto interno che impediscono il raggiungimento dell’obiettivo.

Mi pare evidente che, sulla base di questo principio, si aprono praterie interpretative di difficile misurazione quanto ad ampiezza…

Sarà quasi sempre possibile, infatti, come nel caso della prescrizione italiana, individuare una norma all’interno di un sistema giuridico complesso da additare come “responsabile” del mancato raggiungimento del risultato e quindi disapplicarla, con conseguenze non ben chiare dal punto di vista interno e con l’introduzione di elementi di incertezza giuridica non di poco conto.

Si tratta in definitiva anche di una questione di coerenza di sistema.

Ogni ordinamento giuridico possiede, al proprio interno, una propria coerenza che deriva dalla lettura coordinata di tutte le norme che lo compongono; la funzione nomofilattica svolta dalle Corti Supreme di ciascuno stato membro viene esercitata proprio tenendo conto di tale complessità per salvaguardare la coerenza dell’insieme, così come anche l’interpretazione dei Giudici Costituzionali, che conformano al dettato costituzionale nazionale le norme di rango inferiore, espungendo quelle irrimediabilmente contrastanti.

Nel contesto di questa complessità, invero, non è pensabile intervenire “disapplicando” singole norme (senza neppure poter prevedere ex ante quali!) perché tale operazione rischia di compromettere la stabilità complessiva dell’ordinamento nella misura in cui la norma disapplicata trovava la propria giustificazione nel coordinamento con altra norma che resta immutata.

*

Sulla base di queste considerazioni mi pare necessario, a livello comunitario, di un attento ripensamento o quantomeno di una riflessione: se infatti l’obiettivo è quello di obbligare gli stati ad un’adeguata ed effettiva tutela delle ragioni dell’Unione in materia di IVA, sembra preferibile che lo Stato inadempiente sia sanzionato con misure economiche, piuttosto che con un’intrusione disapplicativa del diritto interno, i cui effetti sono del tutto imprevedibili all’interno del sistema giuridico in cui si producono.

Avv. Alberto Michelis 

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