L’acquisto indiretto di azienda è elusivo?
In un recente articolo apparto su Il Corriere Tributario n. 4/2021 a firma di Francesco De Rosa e Gianluca Esposito dal titolo “I possibili risvolti elusivi dell’acquisto indiretto di azienda”, è stata analizzata, sotto il profilo dell’abuso del diritto, la fattispecie dell’acquisto indiretto di azienda realizzato mediante una cessione totalitaria di quote di una società ad un’altra, con successiva fusione per incorporazione fra l’acquirente e la società acquisita.
La tesi del commento è che l’operazione si presta a profili di elusività dal punto di vista dell’imposta di registro, poiché con un duplice atto sottoposto ad imposta fissa, realizza l’effetto tipico della cessione di azienda che, tuttavia, se attuata con un normale atto di vendita, sconterebbe invece l’imposta al 3% o, in presenza di immobili, al 9% sul loro valore.
La tesi è suggestiva – e non vi è dubbio che potrebbe essere sposata dall’Ufficio – ma non rappresenta ovviamente un dogma, anzi.
Invero, ai sensi dell’art. 10 bis Legge 212/2000 (introdotto dall’art. 1 D. Lgs. 128/2015), nell’affermare il diritto del contribuente a scegliere, fra più strumenti a sua disposizione, quello che sopporti un carico fiscale più favorevole, pone il limite dell’abuso del diritto che si concreta laddove il vantaggio fiscale consegua ad una o più operazioni, in sé prive di una sostanza economica diversa dal vantaggio fiscale (che a quel punto si ritiene indebito).
Il punto è dunque essenzialmente quello di verificare se, nella concatenazione di atti (cessione+fusione) davvero non sia ravvisabile una “sostanza economica” o comunque un interesse ulteriore rispetto al vantaggio fiscale.
L’interrogativo è opportuno perché fra cessione di azienda e cessione di quote con successiva fusione, passa, dal punto di vista civilistico, una bella differenza anche in termini di soggettività e di responsabilità per le obbligazioni presenti, passate e, in qualche caso, anche future.
Nel caso della cessione d’azienda si realizza un negozio in cui il cessionario assume una responsabilità per le obbligazioni aziendali “limitata” a quelle obbligazioni che, ai sensi dell’art. 2560 cod. civ. risultano dai libri obbligatori o, in ambito tributario, a quelle obbligazioni che risultino dalla certificazione ex art. 14 D. Lgs. 472/97, oltre che, naturalmente ai debiti nei confronti dei dipendenti.
Al di fuori di tale ambito (certo ampio, ma non illimitato) la responsabilità dell’acquirente viene meno ed il creditore potrà agire solo nei confronti del cedente.
Nell’ipotesi di cessione di quote con successiva fusione, al contrario, l’intero soggetto in precedenza titolare dell’azienda si fonde con l’acquirente divenendo una cosa sola e divenendo responsabile per qualsiasi obbligazione riferibile al soggetto incorporato che è divenuto una cosa sola con l’incorporante. Nessun limite alla sua responsabilità, quindi, perché il cessionario non è altro che la continuazione del ceduto.
Le conseguenze civilistiche, pertanto, sono profondamente diverse e il regime di responsabilità delle obbligazioni nel caso di cessione+ fusione enormemente più gravoso per l’incorporante.
A titolo meramente esemplificativo, l’incorporante, a differenza del cessionario d’azienda, potrebbe essere chiamato a rispondere di debiti che non conosceva, perché non indicati nei libri obbligatori, di danni riferibili a contratti esauriti prima della cessione delle quote (si pensi ad un danno da prodotto venduto prima della cessione che si manifesta dopo l’incorporazione), di obbligazioni tributarie anche non conosciute, non certificate e sopravvenute alla fusione.
In tale contesto si può davvero affermare che l’operazione di cessione+ fusione sia necessariamente priva di “sostanza economica” diversa dal risparmio fiscale?
O siamo in presenza di una fattispecie in cui il cessionario-incorporante si fa carico di un rischio di impresa più elevato controbilanciandolo con un legittimo risparmio fiscale?
E ancora: si potrebbe sostenere l’assenza di sostanza economica (o di valida e non rilevante ragione fiscale) laddove tale struttura della cessione fosse imposta come condizione dall’originario proprietario delle quote con il fine di spogliarsi di ogni responsabilità personale (fatte salve ipotesi di responsabilità per mala gestio, ove i debiti sopravvenissero a causa di irregolarità amministrative)?
La risposta all’interrogativo è ovviamente da valutare caso per caso, tenendo sempre in debito riferimento la (immancabile) circolare n. 1/2018 GDF e la raccomandazione n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012 della Commissione Europea.
Invero, le linee guida contenute nei suddetti atti portano a ritenere l’assenza di sostanza economica ogni qualvolta:
a) la qualificazione giuridica delle singole misure di cui è composta la costruzione non è coerente con il fondamento giuridico della costruzione nel suo insieme;
b) la costruzione o la serie di costruzioni è posta in essere in un modo che non sarebbe altrimenti impiegato in quello che dovrebbe essere un comportamento ragionevole in ambito commerciale;
c) la costruzione o la serie di costruzioni comprende elementi che hanno l’effetto di compensarsi o annullarsi reciprocamente;
d) le operazioni concluse sono di natura circolare;
e) la costruzione o la serie di costruzioni comporta un significativo vantaggio fiscale, di cui tuttavia non si tiene conto nei rischi commerciali assunti dal contribuente o nei suoi flussi di cassa;
f) le previsioni di utili al lordo delle imposte sono insignificanti rispetto all’importo dei previsti vantaggi fiscali.
La sussistenza o meno del requisito andrà pertanto verificata caso per caso, tenuto conto sempre del fatto che incombe comunque sull’Ufficio l’onere della prova dell’abuso e che comunque la dimostrazione da parte del contribuente di una sussistenza di ragioni “extra-fiscali” non marginali giustificative dell’operazione, costituisce sempre un solido salvagente nel procelloso mare dell’abuso del diritto.
Avv. Alberto Michelis